La politica attuale non solo in Italia ma sia nel mondo occidentale democratico e liberale sia nel mondo orientale con democrazie limitate e autoritarie, unisce due contraddizioni e ne fa un punto di forza. Gli assiomi della politica attuale sono l’aspetto preponderantemente manageriale e quello preponderantemente identitario, che sono anche assiomi e aspetti che non vanno d’accordo tra di loro, ma costituiscono allo stesso tempo un mix esplosivo che blocca la crescita della democrazia. Nel mondo orientale l’aspetto manageriale non si affaccia tutto d’un colpo con il “socialismo di mercato” o con l’autocrazia di Putin. Esso ha un retroterra più nella vecchia Unione Sovietica che in Cina, nelle politiche dirigiste di Breznev e Andropov che furono i ministri che fecero carriera nel Politburo per poi divenire presidenti non eletti in URSS che cercarono più di altri precedenti presidenti di iniettare nel sistema sovietico elementi di meritocrazia e aziendalismo (certo già l’impostazione di fabbrica della grande crescita stalinista degli anni 40-50 era basata sul lavoro a cottimo e l’impostazione taylorista fordista) ma Breznev nel suo arco temporale di guida del popolo russo fu il creatore di un’immane burocrazia, fu l’estensore della burocrazia impiegatizia e fu colui che introdusse le falle del sistema occidentale con le differenziazioni di classe seppur non riformando e introducendo elementi di mercato come fecero Gorbaciov e Eltsin. La Russia degli anni ottanta aveva elementi simili al sistema capitalista occidentale nella conformazione di classi disomogenee e nello spremere l’uomo nel nome del profitto capitalistico in Occidente, invece della grandezza dell’Impero in URSS. Si pensi ad un solo dato a difesa di questa tesi, cioè la disoccupazione che diveniva un dato strutturale e non variabile, cioè connaturato alla società anche nella Russia degli anni ottanta come negli USA e Europa degli anni ottanta. Milioni di sovietici erano senza lavoro e costituivano il lumpenproletariato di un sistema in cui erano costretti ad una vita precaria e picaresca, si pensi ai giovanissimi non solo in URSS ma anche nella Germania dell’est e non parliamo della Romania di Ceausescu. Insomma tutte quelle nazioni che non erano prettamente agricole come l’Albania e la Cina e si accontentavano di una vita rurale e all’aperto, erano costrette a fare i conti con il capitalismo e quindi dovevano, per stare nella competizione economica mondiale, assumere le sembianze di uno stato capitalista nonostante fossero comunisti.

Un altro aspetto è quello geoculturale. Gli Imperi manageriali dagli anni ottanta con l’inizio della globalizzazione hanno culturalmente se non con le armi dominato spazi culturali limitrofi e che non erano a volte assertivi nell’essere dominati. Si pensi all’espansione dell’URSS in Afghanistan, o al modello finanziario globalista monetario americano in tutto il mondo latinoamericano (in Cile) negli anni ottanta di Reagan.
Da un lato l’aspetto culturale dell’americanizzazione o american way of life vinse lo scontro della guerra fredda e si impose per un breve periodo nel mondo dopo la caduta del muro di Berlino e lo sgretolamento dell’URSS. Già però all’inizio degli anni novanta il tema identitario si pose nelle nazioni un tempo comuniste prendendo il sopravvento come nazionalismo culturale ed etnico, si pensi alla Jugoslavia e alla sua implosione (vedi anche la guerra tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabakh). Tuttavia, la preminenza dell’aspetto culturale e etnico identitario all’interno di una nazione non industrializzata è diversa dall’assioma identitario ed etnico in nazioni geo-estese (Imperi) come quelli attuali dell’Oriente (Russia e Cina). Da un lato ancora oggi abbiamo nazioni di poca importanza militare e di potenza regionale che rivendicano temi etnico-identitari e basano la loro azione politica e diplomatica su esacerbato nazionalismo, dall’altro abbiamo dagli anni ottanta in poi cioè dall’inizio della globalizzazione sistemi estesi e potenze regionali che uniscono in Oriente sistemi identitari ed etno-nazionalisti con elementi di gestione manageriale. La gestione manageriale non è solo ridotta al sistema industriale come può essere il sistema produttivo cinese basato sul socialismo di mercato, ma assume anche aspetti storici, cioè di come viene insegnata la storia e di come ci si rapporta con l’Altro nel mondo, fino al sistema manageriale nella gestione della tecnologia, nei rapporti di lavoro quindi anche nella psicologia del lavoro fino alla psicologia collettiva e psicologia sociale, nella gestione dei sistemi di welfare, sanitari, scolastici e fino alla gestione dei sistemi militari, rispettino essi il diritto internazionale o siano come nel caso della Russia di Putin espansivi.

Ho sottolineato soprattutto la data degli anni ottanta perché è con l’inizio della globalizzazione che si afferma il sistema manageriale nel mondo, e si affacciano studi sociologici e psicologici sull’ambiente del lavoro, sulla concorrenza tra persone all’interno di un sistema di lavoro, sulla competizione interna agli ambienti di lavoro, fino a studi medici sulle cause di malattie legate al troppo stress lavorativo. Se un tempo questi erano studi riservati solo agli addetti al settore, oggi invece siamo pieni di manuali su come convivere con mobbing, ambienti stressanti, competizione interna ecc. Si pensi che studi medici già negli anni settanta informavano la popolazione sullo stress dell’ascesa piramidale in certi ambienti di lavoro ovvero sui possibili effetti deleteri della spinta al carrierismo ad ogni costo. Una certa critica di sinistra da parte delle sinistre postcomuniste e postsocialiste fino al sovranismo di destra hanno portato negli anni novanta e primi duemila una critica alle organizzazioni capitalistiche della società, in un periodo in cui era il centrosinistra (anni novanta) che iniziava a tradire dopo aver messo alla berlina il Craxismo e averlo confinato ad Hammamet, il centrosinistra rimasto tra privatizzazione e Trattato di Maastricht e Legge Treu iniziava a tradire l’essenza della sinistra. Come è accaduto oggi con il sovranismo di Meloni e company che ha tradito i suoi stimoli originari basandosi su un americanismo Trumpiano esacerbato. Negli anni duemila fino alla crisi del 2008 si è esacerbato il sistema manageriale nella gestione della vita umana, e del mondo del lavoro, tanto con governi di centrodestra che di centrosinistra un po’ in tutto il mondo occidentale, ma anche nel mondo orientale, si pensi alle riforme che hanno risvegliato Russia e Cina come nuove potenze in grado di scalfire il primato nordamericano. Il governo di Trump oggi ha unito contraddittoriamente questi assiomi, in reazione ad un mondo che aveva depauperato l’operaio nordamericano. La reazione delle persone che hanno votato Trump è divenuta sia reazione al mondo ipercompetitivo che ha fatto sì che le aziende USA delocalizzassero, sia ripresa in una chiave patriottica degli aspetti dell’aziendalismo degli anni 50 e 80, quelli che cercò di scalfire Kennedy. Ed è in questa logica che si legge l’attualità, in quanto Trump elogiando anche modelli autoritari come quello cinese e russo, ha creato una sorta di “aziendalismo patriottico” che pensa che tutto possa essere gestito in chiave manageriale, si pensi anche alle carceri con i coccodrilli. Allo stesso tempo questo contraddittorio e nuovo “aziendalismo imperiale e patriottico” che sostituisce il mondo degli anni novanta e duemila basato sulla globalizzazione quindi su un aziendalismo che si riduceva e precarizzava ma aveva anche a cuore un ordine globale liberista e di mercato con il contorno dei diritti umani. Il nuovo aziendalismo di Trump porta gli USA ad un passo dalla gestione delle questioni umanitarie e di immigrazione, come quelle economiche, più vicino a paesi non democratici; infatti qui ci sta il connubio che non passa inosservato tra Trump e Putin. In Europa e nel resto del mondo andiamo verso modelli di imitazione a volte mal riusciti di questo aziendalismo e managerialismo che già negli anni del dopoguerra la Scuola di Francoforte condannava e ne faceva risaltare la negatività. Nella Russia di Putin con il progetto neo-zarista della Grande Russia si riaffaccia un aziendalismo in chiave militaristica che sacrifica i diritti individuali in nome della grandezza dell’Impero e vorrebbe restaurare una Cavalleria Tecnologica con cadetti pronti ad andare in guerra per un pazzo dittatore.

Purtroppo oggi come nei primi anni novanta con l’inizio della globalizzazione con la sua fase unipolare e di american way of life si stagliano poche voci critiche. Si pensi che solo la Scuola di Francoforte ed economisti come Ludwig Von Mises riuscirono in passato a fare un paragone tra aziendalismo capitalista, burocrazia sovietica e nazionalismo identitario tedesco. Erano altri tempi e c’erano grandi menti. Oggi c’è una difesa nella sinistra antagonista del protezionismo e di un aziendalismo in chiave giustizialista (come quello di Marco Travaglio e company) che difende la Russia di Putin e la Cina. Perché? Probabilmente perché non c’è più un’utopia in grado di unire le persone. L’ultima utopia non realizzata per inerzia ed egoismo dei governanti del mondo, dopo il comunismo, la socialdemocrazia, è stata l’idea di globalizzazione che adesso Trump sta sfasciando insieme a Putin e Xi Jinping ma anche a Orban e Meloni e Salvini.
Alla sinistra non antagonista e giustizialista, rimangono solo ancora aspetti ed assiomi identitari (dai gay al femminismo ecc.) perché non riescono a vedere il fallimento del sistema prima aziendalista, poi globalista e ripropongono insieme ai liberali questi modelli in contrapposizione alla globalizzazione neo-imperiale e “autoritaria patriottica manageriale” delle nuove potenze mondiali.
Si pensi che quello che è rimasto della sinistra non comunista e quindi non ideologica si è adagiata sul managerialismo come dimostra lo sfruttamento del territorio e dell’edilizia a Milano sotto l’amministrazione Sala.
Per non parlare di battaglie fatte male, e qui parlo anche dei radicali che hanno speso risorse qui da noi in Italia, per il tema della cittadinanza quando invece non serve una cittadinanza italiana, ma bisognerebbe ascoltare di più l’ex governatore della Florida Jeb Bush (Council of Foreign Relations) che ha proposto di riformare il tema dell’immigrazione negli USA, proponendo più permessi di lavoro e “green card” e maggiori investimenti nell’istruzione libera con un mix di scuole pubbliche, charter e private, si veda la campagna presidenziale di Jeb Bush del 2016 per la nomination repubblicana.

Insomma un mondo liberale e radicale perso nelle fumisterie di battaglie identitarie e solo per i diritti non può funzionare a lungo, bisogna ricominciare ad investire i propri programmi politici di temi come il benessere (tema che era al centro della prima fase della globalizzazione liberale) fino ad un sistema manageriale più umano che tuteli le differenze e garantisca il rispetto della persona umana nell’arco di tutta la sua vita, con formazione, istruzione e servizi sociali personalizzati. Allo stesso tempo devo ringraziare i miei amici radicali e liberali perché sono gli unici che hanno capito che la battaglia per disarcionare l'”aziendalismo patriottico” delle nuove potenze del male, è quella di unire le nazioni in cui sono ancora fortemente sentiti i diritti umani, individuali e la dignità della persona (non solo quella autoctona ma anche al di là di visioni razziste) e quel posto è solo la nostra cara Europa, che deve per forza unirsi per avere forza di rappresentare davanti ad altri interlocutori questi valori umani e ideali.

EDOARDO BUSO