
Il grande ribilanciamento commerciale
Viviamo in tempi in cui pare si sia un pò dilatata la dematerializzazione dei primi anni della globalizzazione.Il commercio mondiale è molto depresso,e sta accadendo che la Cina sta spostando la sua produzione manifatturiera ad alta intensità di lavoro e a basso valore aggiunto in sud est asiatico e in africa,li dove c’è molta manodopera a basso costo:mentre lo stesso dragone cinese opta piu’ per il consumo per coprire la domanda interna (consumo interno di prodotti),invece che esternalizzazione e esportazione all’estero.
E’ l’epoca la nostra oltre che del covid,quella che vedrà un positivo ribilanciamento dei deficit commerciali:lo scenario è quello di una Cina che oltre ad investire nelle tecnologie piu’ innovative,consuma parte di quello che produce nel suo mercato interno,mentre Europa e Usa possono anche loro comprare meno dall’estero e produrre un pò in casa propria.
D’altronde un pò in tutto il mondo,nonchè il “trumpismO” ci hanno abituati a questa narrazione se non ad una versione ancora piu’ disruptive ,come quella delle sovranità nazionali.
Ma andando a fondo del discorso,ci accorgiamo che un ribilanciamento del commercio mondiale è positivo,ma non significa cambiamento degli asset strategici dello stesso.Infatti la Cina e le sue catene di valore rimarranno ancora per molto tempo il centro della globalizzazione produttiva e commerciale.
Ed è controproduttivo pensare che piccole nazioni come l’Italia possano contribuire forzosamente a questo ribilanciamento solo tramite la propria economia nazionale,creando industrie da zero e mettendosi a produrre.
Produrre per chi?
Infatti qui viene la domanda,è possibile per la nostra nazione ri-iniziare a produrre beni di massa?Probabilmente no,anche se certi falchi vicini al movimento cinque stelle come Marianna Mazzuccato parlano di stato imprenditore.Infatti come ha ricordato il professor tedesco Rainer Zitelmann nemmeno la Cina ha un controllo dello stato sulla direzione della produzione,la stessa Cina ha un comparto privato che supera il peso del comparto pubblico,mentre in Italia la spesa pubblica supera da anni il Pil prodotto a livello privato.Insomma in Cina abbiamo un capitalismo piu’ libero che in certe nazioni europee,secondo Zitelmann.
Possiamo fare le scarpe a Huawei ed Apple?Le risposte sono due,si potrebbe da un lato pensare di impiantare industrie di stato in quattro e quattro otto ,magari facendole dirigere da laureati in scienze e tecnologie nelle università italiane ,questo tuttavia non presume che ci sia la scintilla di genio che è venuta a steve Jobs od a Bill Gates,Se poi i prodotti che ci mettiamo a produrre non vengono comprati all’estero perchè o troppo cari o con poco valore aggiunto (i cinesi si comprano i loro di prodotti),se pensassimo che questi prodotti possano essere risolti commerciandoli internamente ,diveniamo come una nuova sorta di Unione Sovietica,infatti l’uRSS ai tempi di Breznev produceva molto ,con alti costi,con bassa intensità di lavoro in alcune aree ed alta in altre aree,ma il risultato era che la sua industria non riusciva a fronteggiare la cibernetica americana.Fu proprio internet e il computer che sucrclassarono il transistor russo.Tuttavia la russia pur essendo isolata commercialmente dall’Occidente poteva pure produrre beni durevoli rispetto ai nostri beni attuali che peccano di obsolescenza precoce,sul settore areo spaziale e sulle scienze fisiche e matematiche l’urss aveva una buona performance,ma per stare nel mercato bisogna soddisfare anche aspetti piscologici ,voglie,elementi che una società pianificata non riusciva a immaginare.Fu cosi che l’industria statale sovietica crollo’ dinanzi a quella occidentale.
Troppi e inutili
Tuttavia molti politici sia di destra che di sinistra ,ma in particolare populisti ,ragionano sull’industria solo per accontentare il bisogno di occupazione che le masse disoccupate chiedono.Purtroppo succede cosi un pò dapperttutto ultimamente,perchè c’è anche una colpa recondita dell’establishment neoliberista ,cioè quella di non aver pensato a modelli sociali dove una parte della popolazione possa fare altro che lavorare.Ma sarà una realtà sempre piu’ estesa nel futuro.Ci troveremo davanti ad ampire masse di persone non occupabili,per colpa della robotica,delle nuove tecnologie,del commercio mondiale e delle produzioni a basso costo che saranno assemblate in paesi in crescita dove i salari saranno piu’ bassi,e poi diciamocelo una volta tanto che le produzioni ad alto valore aggiunto non hanno bisogno di milioni di operai ,ma bensi di pochi operai e tecnici qualificati.Bisognerà interrogarsi sul futuro del lavoro,senza pensare alla panacea dell’industria di stato che ci riporta al novecento.Bisognerà parlare di innovazione e premiare chi inventa e produce innovazione tramite la meritocrazia,ma anche proteggere chi non potrà essere inserito nel ciclo produttivo temporaneamente o in tutto l’arco della vita.E’ in questo senso che il sociale si dovrà trasformare in bonus,cash,ed sopprattutto che si dovrà estendere un basic income o reddito di cittadinanza universale europeo.
D’altronde le promesse del neostatalismo industriale sono peggiori di quella di un basic income con cui pagare almeno certi consumi privati.Perchè la prospettiva di lavorare per aziende che potrebbero fare fatica a stare nei mercati,che verrebbero dopate grazie ai politici di assistenzialismo pubblico ,e che essendo statali o pubbliche non fallirebbero mai,sarebbe ancora peggio di soluzioni di sociale liquido,e redistribuzione della ricchezza.Ma per redistribuire veramente la ricchezza e non accumulare spesa pubblica eccessiva e debito pubblico eccessivo ,bisognerà per forza ristrutturare il settore pubblico e del pubblico impiego statale,per rendere gli stati piu’ concorenziali,piu’ innovativi ,piu’ dirompenti di fronte all’incalzare della globalizzazione.Piu’ liberismo dunque che nuova Iri.
EDOARDO BUSO